Questo fenomeno, ormai globale, evidenzia come la difficoltà nel trovare manager non dipenda solo dalla scarsità di talenti esterni, ma anche dall’incapacità delle organizzazioni di far crescere i propri quadri.

[In pillole] La sintesi per chi va di fretta:
La ricerca di manager competenti è una sfida globale per le aziende. Un'indagine del Gruppo Cegos rivela che il 42% dei direttori HR fatica a reclutare, mentre il 68% ritiene i dipendenti interni impreparati. I nuovi leader, seppur soddisfatti, lamentano carichi di lavoro eccessivi e poco tempo per l'aspetto umano. Le aziende esplorano soluzioni tecnologiche, ma la questione richiede una revisione profonda della crescita della leadership.
La difficile ricerca di un capo
Trovare un manager competente è diventato un problema serio e diffuso per un numero crescente di aziende. Non si tratta più di un’impressione o della lamentela isolata di qualche responsabile delle risorse umane, ma di un dato strutturale che emerge con forza da recenti analisi di settore.
La questione è complessa perché non riguarda soltanto la difficoltà di attrarre talenti dall’esterno, ma svela anche una debolezza interna a molte organizzazioni: l’apparente incapacità di far crescere e preparare i propri dipendenti a ruoli di maggiore responsabilità. È un paradosso che costringe le imprese a guardarsi dentro, mettendo in discussione metodi di formazione e percorsi di carriera consolidati.
Questa difficoltà nel reperire quadri dirigenziali non è un fenomeno passeggero, ma il sintomo di un cambiamento più profondo nel mercato del lavoro, dove le competenze richieste si evolvono più velocemente della capacità delle aziende di formarle. La ricerca di una leadership efficace si scontra con un bacino di candidati, sia interni che esterni, che spesso non sembra possedere quel mix di abilità tecniche, gestionali e umane oggi indispensabile.
Il risultato è un rallentamento nei processi di selezione e, in alcuni casi, la scelta di candidati che rappresentano un compromesso, con tutte le incognite che questo comporta per il futuro dell’organizzazione. La situazione, inoltre, non è limitata al contesto italiano, ma assume contorni globali. E i dati lo confermano in modo piuttosto netto.
Una carenza che si estende oltre i confini
Quasi la metà dei direttori del personale, per la precisione il 42%, ammette di incontrare notevoli ostacoli nel reclutare le figure dirigenziali di cui avrebbe bisogno.
Il dato, già di per sé significativo, diventa ancora più preoccupante se si guarda all’interno delle aziende: il 68% degli stessi responsabili HR ritiene che i dipendenti già assunti non abbiano le competenze adeguate per fare il salto di qualità e assumere un ruolo manageriale.
Questa fotografia emerge da un’indagine internazionale condotta nel marzo del 2025 dal Gruppo Cegos, che ha coinvolto dieci paesi tra Europa, America Latina e Asia, mostrando come il problema sia tutt’altro che localizzato.
L’analisi mette in luce una frattura tra le necessità strategiche delle imprese e le capacità effettive presenti sul mercato. Non si tratta solo di trovare qualcuno che sappia “dare ordini”, ma di individuare persone in grado di guidare team complessi, gestire budget, innovare processi e, soprattutto, motivare i collaboratori in un contesto lavorativo in continua trasformazione.
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Marco Morelli, amministratore delegato di Mercer Italia, ha descritto la situazione con parole chiare, affermando che “il mercato del lavoro è sempre più povero non solo di lavoratori, ma anche di competenze“.
Secondo Morelli, la via d’uscita richiede una revisione profonda dei modelli professionali e un investimento serio in programmi di formazione continua, con un’attenzione particolare allo sviluppo di quelle abilità digitali che oggi sono date quasi per scontate, ma che in realtà non lo sono affatto.
Questo, però, è solo un lato della medaglia.
Una volta superato lo scoglio della selezione, cosa accade a questi nuovi manager tanto ricercati?
Il paradosso del manager soddisfatto ma sovraccarico
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, chi riesce a ottenere un ruolo manageriale sembra adattarsi piuttosto bene.
Un sorprendente 89% dei nuovi manager si dichiara infatti soddisfatto delle proprie performance e il 77% consiglierebbe ad altri di intraprendere lo stesso percorso.
Le motivazioni principali che spingono ad accettare queste responsabilità sono concrete e pragmatiche: una migliore retribuzione per il 37% e la possibilità di risolvere problemi operativi complessi per un altro 37%.
In sostanza, il ruolo manageriale attrae ancora chi cerca una sfida intellettuale e un ritorno economico adeguato.
Tuttavia, questo quadro positivo nasconde delle crepe significative.
Ben il 67% dei nuovi manager segnala un carico di lavoro in costante aumento, un dato che suggerisce una pressione operativa difficile da sostenere nel lungo periodo.
Ancora più emblematico è il fatto che quasi la metà di loro (il 47%) dichiari di non avere abbastanza tempo da dedicare all’aspetto “umano” del proprio lavoro, come l’ascolto e il supporto ai propri collaboratori.
Emerge così la figura di un manager efficace sul piano operativo ma potenzialmente carente su quello relazionale, schiacciato da responsabilità che gli impediscono di essere quel leader empatico che le stesse aziende dicono di volere.
Questa tensione interna ai ruoli manageriali si inserisce in un mercato del lavoro esterno che presenta ulteriori e non trascurabili complessità, soprattutto quando si parla delle nuove generazioni.
La risposta delle aziende, tra dati e nuove promesse
Il mercato europeo, con i suoi tassi di disoccupazione relativamente bassi, ha spostato l’equilibrio di potere a favore dei candidati, costringendo le aziende a diventare più attraenti.
In questo contesto, come descritto sulla piattaforma Whappy.it, trattenere i talenti è diventato difficile quanto trovarli, con alcuni settori che registrano tassi di abbandono vicini al 30% già nel primo anno.
A complicare ulteriormente le cose interviene la Generazione Z, che entra nel mondo del lavoro con priorità diverse rispetto alle generazioni precedenti, mettendo l’equilibrio tra vita privata e professionale al centro delle proprie scelte.
Di fronte a questa situazione, le grandi organizzazioni stanno cercando di correre ai ripari, spesso affidandosi a soluzioni tecnologiche. Si parla sempre più insistentemente di decisioni “data-driven” anche nelle risorse umane, con la creazione di enormi database per alimentare algoritmi per lo sviluppo di intelligenze artificiali che dovrebbero aiutare a identificare i candidati migliori e a prevederne le performance.
L’idea è quella di spostare il focus dai titoli di studio e dalle esperienze passate alle competenze effettive, valutate in modo più oggettivo. Allo stesso tempo, si riscopre l’importanza del processo di “onboarding”, ovvero l’inserimento dei nuovi assunti, con piani strutturati che prevedono affiancamento e formazione.
La vera sfida, tuttavia, non è solo disegnare questi percorsi, ma garantirne l’efficacia e la coerenza nel tempo. È qui che l’approccio estemporaneo lascia il posto a sistemi integrati, dove un software per la gestione delle risorse umane diventa lo strumento per trasformare i piani di crescita da un’intenzione strategica a una realtà operativa e misurabile.
Resta però un dubbio di fondo: questi strumenti, pur sofisticati, saranno in grado di risolvere un problema che sembra avere radici profonde nella cultura aziendale e nella formazione?
O rischiano di essere solo un modo tecnologicamente avanzato per gestire una carenza di visione strategica sulla crescita delle persone, lasciando irrisolta la questione centrale di come si costruisce, e non si compra soltanto, la leadership del futuro.
 
         
         
         
        


