L’attrice emergente interamente generata da un’intelligenza artificiale, e presentata con tanto di agenzia di rappresentanza, ha provocato una reazione immediata e compatta di attori, registi e sindacati, che la percepiscono come una grave minaccia per il lavoro e la creatività umana nell’industria.

[In pillole] La sintesi per chi va di fretta:
Hollywood è in fermento per Tilly Norwood, attrice generata dall'AI. La sua comparsa ha scatenato intense polemiche: attori come Emily Blunt e il sindacato SAG-AFTRA si oppongono, vedendola come minaccia al lavoro e all'etica professionale. Il dibattito cruciale mette in discussione la creatività umana e il futuro stesso dell'industria cinematografica di fronte all'avanzare della tecnologia.
Un’industria sull’orlo di una crisi d’identità
Le reazioni alla presentazione di Tilly Norwood sono state immediate e tutt’altro che moderate. L’attrice Emily Blunt, durante una conversazione per il podcast di Variety, ha definito l’idea “terrificante”, aggiungendo una supplica diretta alle agenzie di talento:
«Per favore, smettetela. Smettete di portarci via la nostra connessione umana».
La sua preoccupazione riflette un timore diffuso: che la tecnologia, anziché essere uno strumento, diventi un sostituto, erodendo l’essenza stessa della recitazione, che si fonda sull’esperienza e sull’emotività umane.
Altre colleghe hanno usato toni ancora più netti. Melissa Barrera, nota per i suoi ruoli in film come In The Heights e la saga di Scream, ha invitato gli attori rappresentati dall’agente di Norwood a interrompere i rapporti professionali, definendo l’operazione “disgustosa”.
Sulla stessa linea si è mossa Natasha Lyonne, protagonista della serie Russian Doll, che ha proposto un boicottaggio da parte di tutte le associazioni di categoria nei confronti di qualsiasi agenzia si impegni in questo tipo di rappresentanza.
Queste prese di posizione mostrano come la questione non sia percepita come una semplice competizione, ma come un attacco ai fondamenti del mestiere. L’idea che un’agenzia, il cui scopo è promuovere e proteggere la carriera di un artista umano, possa dedicare le stesse risorse a un’entità artificiale è vista come un tradimento.
Anche voci più esperte e consolidate, come quella di Whoopi Goldberg, hanno contribuito al dibattito. Durante una puntata del programma televisivo The View, Goldberg ha riconosciuto il potenziale “vantaggio sleale” di un’entità artificiale, spiegando che un programma può essere addestrato con le caratteristiche di migliaia di attori, combinando «l’atteggiamento di Bette Davis con il mio umorismo».
Pur mostrando fiducia nella capacità del pubblico e dei professionisti di distinguere sempre una performance umana da una simulata, le sue parole evidenziano la complessità di una sfida in cui la posta in gioco è la singolarità del talento umano.
Ma al di là delle singole voci, a definire i contorni della questione è intervenuta la più potente organizzazione di categoria del settore.
La linea invalicabile del sindacato
La Screen Actors Guild (SAG-AFTRA), il sindacato che rappresenta oltre 160.000 attori e professionisti dei media, ha rilasciato una dichiarazione molto dura, che non lascia spazio a interpretazioni. Secondo il sindacato, «Tilly Norwood non è un’attrice, è un personaggio generato da un programma informatico che è stato addestrato sul lavoro di innumerevoli artisti professionisti, senza il loro permesso e senza compenso».
Questa affermazione, come descritto da Global News, va al cuore del problema: la questione del consenso e della proprietà intellettuale. I modelli di intelligenza artificiale generativa “imparano” analizzando enormi quantità di dati, che in questo caso sono le interpretazioni, i volti e le voci di attori reali. Il sindacato sostiene che questo processo avvenga in modo opaco e senza un’adeguata retribuzione per coloro il cui lavoro costituisce la materia prima per l’addestramento degli algoritmi.
La dichiarazione prosegue sottolineando un punto che viene considerato non negoziabile:
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«La creatività è, e dovrebbe rimanere, incentrata sull’uomo».
Per la SAG-AFTRA, un’intelligenza artificiale non può replicare l’esperienza di vita, l’emozione e la profondità che un attore umano porta in una performance. Il sindacato si spinge oltre, mettendo in dubbio anche l’interesse del pubblico per contenuti generati artificialmente e «scollegati dall’esperienza umana».
Questa posizione è coerente con le battaglie portate avanti durante i lunghi scioperi che hanno paralizzato Hollywood nel 2023, quando la regolamentazione dell’uso dell’IA è stata uno dei punti centrali delle trattative. L’arrivo di Tilly Norwood viene quindi visto non come un’innovazione, ma come un tentativo di aggirare le tutele conquistate con fatica, proponendo un modello che rischia di svalutare il lavoro umano. A questa visione monolitica e preoccupata, tuttavia, si contrappone una narrazione completamente diversa, quella di chi Tilly Norwood l’ha creata.
Un nuovo pennello, non una minaccia
Di fronte a un’ondata di critiche così vasta, la risposta dei creatori di Tilly Norwood non si è fatta attendere. Attraverso l’account Instagram del personaggio artificiale, uno dei responsabili del progetto, un certo Van der Velden, ha pubblicato una difesa articolata, cercando di riposizionare l’intera operazione.
Secondo la sua dichiarazione, Tilly Norwood non dovrebbe essere vista come «un rimpiazzo per un essere umano, ma come un’opera creativa, un’opera d’arte». Il tentativo è quello di spostare il dibattito dal piano della competizione lavorativa a quello dell’espressione artistica, suggerendo che lo sviluppo di modelli d’intelligenza artificiale sia semplicemente un nuovo strumento a disposizione dei creativi.
La difesa si basa su un paragone storico: «Come molte forme d’arte prima di lei, suscita una conversazione, e questo di per sé dimostra il potere della creatività. Vedo l’IA non come un sostituto delle persone, ma come un nuovo strumento, un nuovo pennello».
Van der Velden ha citato l’animazione, i burattini e la computer grafica (CGI) come esempi di tecnologie che hanno aperto nuove possibilità narrative senza per questo eliminare la recitazione dal vivo. Una difesa che, tuttavia, non sembra convincere del tutto gli scettici.
Il paragone, per quanto suggestivo, tralascia una differenza fondamentale: mentre l’animazione e il CGI sono strumenti che richiedono il lavoro continuo di artisti umani, un “attore” IA è progettato per operare con un grado crescente di autonomia, basandosi su dati preesistenti che, come sottolinea il sindacato, sono stati spesso raccolti senza un chiaro consenso.
Resta quindi un dubbio di fondo sulla natura di questa “opera d’arte”.
Se un’azienda investe risorse per creare e promuovere un’entità artificiale attraverso un’agenzia di talento, è difficile sostenere che l’obiettivo sia puramente artistico e non commerciale. La vicenda di Tilly Norwood sembra essere meno la nascita di una nuova forma d’arte e più un test per saggiare le reazioni del mercato e dell’industria di fronte a un modello di business che potrebbe ridurre i costi di produzione e la dipendenza dal talento umano.
È una questione che va oltre Hollywood e interroga tutti su quale valore attribuiamo alla creatività umana in un mondo in cui la tecnologia sembra in grado di replicarne, almeno in superficie, i risultati.



