Quasi un terzo dei lavoratori si sente stanco o emotivamente prosciugato dalle mansioni, una condizione che rivela la distanza tra le intenzioni delle aziende e le iniziative effettivamente percepite dai dipendenti.

[In pillole] La sintesi per chi va di fretta:
Il rapporto HR Trends 2025 di Randstad rileva che un lavoratore italiano su cinque è a rischio burnout. Malgrado il 77% delle aziende dichiari attenzione al benessere, solo il 45% ha implementato programmi specifici. Questo divario tra intenzioni e azioni concrete segnala un profondo malessere organizzativo, con impatti economici e sociali notevoli per l'Italia.
Il divario tra percezione e azione aziendale
Il punto più delicato che emerge dalla ricerca di Randstad è proprio lo scollamento tra la visione dei manager e l’esperienza quotidiana dei lavoratori. Caterina Gozzoli, docente di Psicologia della convivenza socio-organizzativa dell’Università Cattolica, spiega che sebbene temi come il benessere mentale, le relazioni interne e la formazione siano ormai formalmente riconosciuti come importanti, la ricerca «evidenzia uno scollamento tra quanto le aziende dichiarano di aver messo in atto per la qualità della vita organizzativa e quanto i professionisti percepiscono».
È un problema di comunicazione, ma soprattutto di sostanza.
Le iniziative, quando esistono, potrebbero non essere efficaci, non raggiungere chi ne ha più bisogno o essere vissute come interventi isolati e non come parte di una cultura aziendale autenticamente orientata al benessere.
La richiesta da parte dei lavoratori, d’altronde, è esplicita e non più rimandabile: sette su dieci chiedono che sia l’azienda a farsi carico del loro equilibrio psicologico, sia sul piano professionale che su quello personale. Pia Sgualdino, a capo della divisione ricerca di Randstad, sottolinea come il benessere mentale sia diventato un fattore centrale, con ricadute dirette sulla qualità del lavoro, sulla motivazione e sulla capacità dell’azienda di trattenere i propri dipendenti.
Ignorare questa esigenza non è più solo una mancanza di attenzione verso le persone, ma un errore strategico che può costare caro in termini di produttività e di reputazione.
Eppure, nonostante questi avvertimenti, la sensazione è che molte organizzazioni continuino a trattare il problema come una questione individuale, da delegare alla resilienza del singolo, piuttosto che come una responsabilità collettiva.
Le conseguenze concrete del malessere organizzativo
Questo stato di malessere generalizzato non rimane confinato tra le mura degli uffici, ma produce effetti economici e sociali misurabili. Secondo alcune stime, i problemi legati alla salute mentale sul posto di lavoro costano all’Italia circa 63 miliardi di euro all’anno.
Questa cifra tiene conto del calo di produttività, dell’assenteismo per malattia e del cosiddetto “presenteismo”, ovvero la condizione di chi è fisicamente al lavoro ma mentalmente assente e poco produttivo.
I dati ufficiali dell’INAIL, riportati da Rai News, confermano una tendenza preoccupante: nel primo trimestre del 2024 sono state 22.000 le denunce di malattie psichiche legate all’attività lavorativa, con un aumento costante rispetto all’anno precedente.
Il numero è un segnale inequivocabile di un disagio crescente che cerca un riconoscimento formale.
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Altre indagini confermano il quadro. Una ricerca condotta da Unobravo su un campione di lavoratori italiani ha rilevato che il 44% si sente stressato e il 29% si identifica già in una condizione di burnout.
Ciò che colpisce, però, è che solo una minima parte di chi soffre (il 9%) ha cercato un supporto psicologico, suggerendo che il problema rimanga in gran parte sommerso.
La mancanza di riconoscimento da parte dei superiori è indicata come la principale causa di stress dal 39% degli intervistati, un dato che sposta il focus dalle caratteristiche individuali del lavoratore alle dinamiche relazionali e organizzative.
Questo significa che il problema spesso non risiede in un carico di lavoro eccessivo di per sé, ma nel modo in cui questo lavoro viene gestito, valutato e valorizzato all’interno dell’azienda.
Un problema di coinvolgimento e di cultura del lavoro
Dietro i sintomi del burnout si nasconde spesso una crisi più profonda di appartenenza e di significato.
Il rapporto Randstad rivela che solo un lavoratore su quattro si sente parte di un gruppo di lavoro aperto e collaborativo, e appena uno su cinque si sente compreso e accettato dai colleghi o percepisce di avere un certo controllo sul proprio percorso professionale all’interno dell’organizzazione.
Sono dati che descrivono un ambiente di lavoro frammentato, dove prevale un senso di isolamento e di impotenza.
Se il lavoro non offre un contesto di relazioni positive e una prospettiva di crescita, diventa facilmente una fonte di frustrazione e, alla lunga, di esaurimento.
Ci sono settori in cui questa dinamica è particolarmente accentuata. Il commercio al dettaglio, la sanità e il settore alberghiero risultano tra i più colpiti, contesti caratterizzati da orari prolungati, un elevato carico emotivo nel rapporto con il pubblico e, spesso, una gestione delle risorse umane orientata più all’efficienza numerica che al benessere delle persone.
Non è un caso che oltre il 43% dei lavoratori del commercio lamenti un supporto inadeguato da parte del proprio datore di lavoro.
In questo quadro, l’impatto dell’IA è ambivalente: se per sei lavoratori su dieci ha portato benefici, è perché un’intelligenza artificiale su misura ben progettata riduce compiti ripetitivi e stress, mentre per un terzo ha generato nuove ansie.
La questione, quindi, è culturale prima che operativa.
Le aziende che hanno investito seriamente nel benessere dei dipendenti riportano risultati positivi in termini di motivazione, produttività e fidelizzazione. Tuttavia, resta il dubbio se le iniziative di welfare, il supporto psicologico o gli eventi di team building possano essere davvero efficaci se non sono accompagnati da un cambiamento reale nelle pratiche di gestione quotidiana, nella distribuzione dei carichi di lavoro e nel riconoscimento del contributo di ciascuno.
Il benessere psicologico dei dipendenti non è più un elemento accessorio del welfare aziendale, ma una questione strategica che interroga la sostenibilità stessa del modello di lavoro contemporaneo.



