L’intelligenza artificiale nelle aziende italiane: un’adozione a due velocità secondo l’EY Italy AI barometer

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Questa rapida espansione, trainata dai vertici aziendali e da investimenti considerevoli, si manifesta però con profonde disomogeneità nell’adozione e una chiara frattura sulle implicazioni etiche.

L’intelligenza artificiale nelle aziende italiane: un’adozione a due velocità secondo l’EY Italy AI barometer
[In pillole] La sintesi per chi va di fretta:
L'adozione dell'intelligenza artificiale in Italia è aumentata rapidamente (dal 12% al 46%). L'EY Italy AI Barometer rivela un'adozione "a due velocità": forte a livello di management (52% benefici) ma più lenta tra i dipendenti. Le sfide includono sicurezza dati e consapevolezza etica. Nonostante gli investimenti elevati, la trasformazione tecnologica in evoluzione culturale è cruciale, con i lavoratori italiani in testa per la formazione individuale.

Un’adozione a due velocità

Il primo elemento che salta all’occhio è la profonda differenza nella frequenza d’uso dell’intelligenza artificiale tra chi occupa posizioni di responsabilità e il resto della forza lavoro.

Se il 59% di manager e dirigenti ha dichiarato di aver aumentato l’impiego di queste tecnologie, la stessa affermazione è stata fatta solo dal 39% dei dipendenti senza ruoli di coordinamento.

Questa non è una semplice differenza statistica, ma l’indicatore di una trasformazione che, al momento, sembra essere guidata principalmente dall’alto, con un impulso strategico che non sempre si traduce in un’adozione capillare e omogenea a tutti i livelli dell’organizzazione.

Questo disallineamento è una delle sfide più significative che le imprese si trovano ad affrontare. Giuseppe Santonato, AI Leader di EY Europe West, ha sottolineato come il vero valore dell’AI si sbloccherà solo quando la sua adozione sarà sostenuta da una “cultura diffusa e condivisa”.

Viene da chiedersi, però, se questa spinta dall’alto si stia traducendo in una comprensione profonda e condivisa a tutti i livelli o se, per ora, si limiti a essere una direttiva strategica la cui portata non è ancora del tutto chiara alla base.

Il rischio è che l’introduzione di nuovi strumenti venga percepita più come un obbligo che come un’opportunità, creando una frattura tra la visione del management e la pratica quotidiana dei lavoratori.

Questa adozione a due velocità non riguarda solo le gerarchie aziendali, ma si manifesta anche con nette differenze tra i vari comparti economici. E mentre la leadership spinge per l’integrazione, sono alcuni settori specifici a mostrare con più evidenza dove questa trasformazione sta già dando i suoi frutti, e perché.

I settori che guidano la trasformazione

Non sorprende che il settore bancario e dei servizi finanziari sia in prima linea in questa transizione. Con l’88% delle aziende del comparto che riconosce miglioramenti tangibili grazie all’AI, il mondo della finanza si conferma un pioniere, forte della sua storica propensione all’innovazione tecnologica e della necessità di processare enormi quantità di dati in modo rapido e sicuro.

In questi contesti, l’intelligenza artificiale non è un semplice ausilio, ma un motore per l’analisi del rischio, la personalizzazione dei servizi e la prevenzione delle frodi.

Tuttavia, allargando lo sguardo alle applicazioni più diffuse in tutte le aziende italiane, il quadro si fa più ordinario. Gli usi prevalenti riguardano infatti il miglioramento della produttività individuale: la stesura di testi (60%), l’utilizzo di assistenti vocali (47%) e l’interazione con i chatbot (40%) sono le attività più comuni.

– Leggi anche: Errori in busta paga: La minaccia nascosta che può costare milioni e talenti alle aziende

Questo dettaglio solleva una domanda: l’attuale ondata di adozione riguarda un cambiamento profondo dei modelli di business o, più semplicemente, l’introduzione di strumenti avanzati per ottimizzare compiti già esistenti, quasi una versione potenziata del pacchetto Office?

La risposta a questa domanda determinerà la reale portata rivoluzionaria di questa tecnologia nel tessuto produttivo del paese. Nel frattempo, le aziende sembrano intenzionate a investire cifre considerevoli. Come descritto da uno studio di Colt Technology Services, un’impresa italiana su quattro che ha già avviato progetti di AI stanzia ogni anno oltre 675.000 euro, una cifra superiore alla media globale.

L’entità degli investimenti suggerisce che le aziende fanno sul serio, ma un impegno economico così rilevante non è privo di perplessità e ostacoli, che vanno ben oltre la semplice implementazione tecnica.

Tra investimenti e incertezze

Nonostante l’ottimismo generale, le preoccupazioni rimangono e sono ben definite. Al primo posto si colloca la sicurezza e la protezione dei dati (53%), un tema centrale quando si affidano informazioni sensibili a sistemi algoritmici. Seguono la qualità dell’esperienza utente (40%), che determina il successo o il fallimento dell’adozione pratica di uno strumento, e i costi di implementazione e mantenimento (32,5%).

Il fatto che l’esperienza utente sia la seconda maggiore preoccupazione dimostra che il successo di un’innovazione non è mai solo tecnologico, ma si gioca sulla sua usabilità. È la progettazione di interfacce e user experience (UI/UX) a determinare l’adozione reale di uno strumento, trasformandolo da un’imposizione a un vantaggio percepito.

Questi fattori rappresentano le barriere più concrete alla diffusione dell’intelligenza artificiale, ma il vero nodo critico potrebbe trovarsi altrove: nella consapevolezza delle sue implicazioni.

Emerge infatti un divario notevole nella conoscenza dei framework etici che dovrebbero governare l’uso dell’AI. Mentre quasi tre quarti dei manager (74%) affermano di conoscerli, meno della metà dei dipendenti (47%) può dire lo stesso.

Questo vuoto di conoscenza è tutt’altro che trascurabile.

Suggerisce che mentre le strategie vengono definite ai piani alti, complete di linee guida su etica e responsabilità, le implicazioni pratiche e le regole del gioco faticano a permeare l’intera struttura aziendale. Si corre il rischio di creare organizzazioni in cui chi usa quotidianamente gli strumenti non ha piena contezza dei principi che ne regolano l’impiego.

In questo contesto, un dato appare particolarmente interessante: l’Italia si posiziona al primo posto in Europa per la percentuale di lavoratori (64%) che sta investendo di tasca propria o con supporto aziendale nella propria formazione sull’AI.

Questa spinta alla formazione individuale può essere letta in due modi: come un segnale di grande proattività e consapevolezza da parte dei lavoratori italiani, o come la risposta necessaria a una carenza di iniziative strutturate da parte delle aziende per colmare quel divario culturale e di competenze.

La verità, probabilmente, sta nel mezzo.

La crescita dell’adozione dell’AI in Italia è un fenomeno innegabile e potente, ma la sua direzione non è ancora definita. La vera sfida, al di là dei proclami e dei bilanci, sembra essere quella di trasformare un’adozione tecnologica in una vera e propria evoluzione culturale, un passaggio tutt’altro che scontato e i cui esiti sono ancora in gran parte da scrivere.

Guidare questa evoluzione culturale richiederà strumenti che vadano oltre la semplice implementazione tecnologica: la gestione della formazione, la mappatura delle nuove competenze e l’allineamento dell’intera organizzazione saranno obiettivi perseguibili a patto di supportare il cambiamento con una cabina di regia adeguata, promuovendo ad esempio lo sviluppo di software per la gestione HR ad hoc che nasca da una co-progettazione con i team stessi. Solo così la leadership potrà evitare di imporre strumenti dall’alto per diventare un vero esempio di curiosità e di apprendimento continuo.

Dalle parole al codice?

Informarsi è sempre il primo passo ma mettere in pratica ciò che si impara è quello che cambia davvero il gioco. Come software house crediamo che la tecnologia serva quando diventa concreta, funzionante, reale. Se pensi anche tu che sia il momento di passare dall’idea all’azione, unisciti a noi.

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