Il piano svelato da recenti report di settore evidenzia una strategia di lungo corso del gigante dell’e-commerce, che da anni integra robotica nei suoi magazzini, alimentando visioni contrastanti sul futuro dei lavoratori e della logistica.

[In pillole] La sintesi per chi va di fretta:
Un'indiscrezione rivela che Amazon starebbe valutando di sostituire mezzo milione di posti di lavoro con sistemi robotizzati, accendendo un dibattito urgente. Nonostante Amazon affermi che la tecnologia supporta i dipendenti, critici e sindacati denunciano come l'automazione, una strategia decennale di Amazon Robotics, stia progressivamente erodendo le mansioni umane. Questo solleva interrogativi cruciali sulla qualità e stabilità del lavoro.
L’automazione come strategia, non come evento
Per comprendere la portata di questa notizia, è utile fare un passo indietro. L’interesse di Amazon per la robotica non è una novità, ma una strategia industriale che va avanti da più di un decennio.
Il punto di svolta fu nel 2012, quando l’azienda acquisì per 775 milioni di dollari Kiva Systems, una società specializzata in robot mobili per magazzini, che fu poi rinominata Amazon Robotics.
Da quel momento, l’introduzione di robot nei centri di distribuzione è stata costante e progressiva. Oggi, Amazon gestisce una flotta di oltre 750.000 sistemi robotici, un numero in continua crescita e una sfida enorme per qualsiasi sistema di gestione del magazzino, che include non solo i robot che spostano interi scaffali, ma anche bracci meccanici sempre più sofisticati e sistemi di smistamento basati sull’intelligenza artificiale.
La narrazione ufficiale dell’azienda, ribadita più volte anche dall’amministratore delegato Andy Jassy, è che l’automazione sia “fondamentale” per gestire l’enorme volume di ordini e per rendere il lavoro meno faticoso e ripetitivo per i dipendenti.
Secondo questa visione, i robot si occuperebbero dei compiti più usuranti, come sollevare pesi o percorrere chilometri all’interno degli enormi magazzini, lasciando alle persone le attività che richiedono capacità di giudizio e problem solving.
Tye Brady, Chief Technologist di Amazon Robotics, ha spesso parlato di “aumentare le capacità” dei lavoratori, non di sostituirli.
Questa evoluzione tecnologica, però, segue una traiettoria che solleva interrogativi legittimi: ogni nuova generazione di robot è in grado di svolgere compiti sempre più complessi, erodendo progressivamente lo spazio delle mansioni puramente umane.
La strategia di Amazon appare chiara: investire in una tecnologia che garantisce efficienza, velocità e un controllo quasi totale sul processo logistico.
Dalle prime unità Kiva, capaci solo di muovere scaffali in aree dedicate, si è passati a sistemi come Proteus, un robot mobile completamente autonomo in grado di operare negli stessi spazi dei lavoratori umani, e a Sparrow, un braccio robotico capace di riconoscere e manipolare milioni di prodotti diversi.
Questa progressione tecnologica suggerisce che il confine tra compiti “per robot” e compiti “per umani” sia destinato a spostarsi continuamente.
La vera domanda, quindi, non è se l’automazione continuerà, ma fino a che punto si spingerà e con quali conseguenze per chi oggi lavora in quei magazzini.
Due narrazioni che non si parlano
Da una parte c’è la versione rassicurante di Amazon, secondo cui l’introduzione di centinaia di migliaia di robot è avvenuta in parallelo alla creazione di centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro. L’azienda sottolinea come la tecnologia abbia permesso di migliorare la sicurezza e di sviluppare nuove competenze, una scelta che sposta il focus della gestione delle risorse umane dalla semplice amministrazione alla riqualificazione strategica.
Dall’altra parte, c’è la visione dei sindacati e dei critici, che descrivono una realtà molto diversa. Stuart Appelbaum, presidente del sindacato RWDSU, ha affermato che, al di là delle dichiarazioni, la realtà è che ogni nuovo robot riduce la necessità di lavoratori umani per svolgere determinate funzioni.
Questa contrapposizione non è solo ideologica, ma si basa su osservazioni e dati concreti. Molti lavoratori dei centri di distribuzione Amazon riportano che l’aumento dell’automazione ha spesso coinciso con un innalzamento dei ritmi e delle quote di produttività richieste al personale umano, chiamato a tenere il passo con le macchine.
Inoltre, si stima che fino al 30% delle ore di lavoro attuali nel settore della logistica e dei magazzini potrebbe essere automatizzato entro il 2030 con le tecnologie già esistenti.
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Il lavoro di magazzino, per sua natura strutturato e ripetitivo, è considerato particolarmente vulnerabile a questa trasformazione.
A gettare ulteriore luce sulla questione sono economisti come Daron Acemoglu del MIT, la cui ricerca sull’impatto dell’automazione sul lavoro suggerisce che, sebbene la tecnologia possa aumentare la produttività complessiva, spesso porta a una riduzione dei posti di lavoro senza creare automaticamente nuove opportunità di pari livello salariale e dignità.
Il punto, secondo molti osservatori, è che le due cose non si escludono a vicenda: Amazon può continuare ad assumere personale per far fronte alla sua crescita esponenziale e, allo stesso tempo, automatizzare una quota sempre maggiore di lavoro, rendendo il singolo lavoratore più “produttivo” ma anche potenzialmente più sostituibile nel lungo periodo.
Il problema non è solo la quantità di posti di lavoro, ma anche la loro qualità e stabilità.
Un problema più grande di Amazon
La questione, inevitabilmente, va oltre i cancelli dei magazzini Amazon e diventa un tema politico e sociale. Molte comunità locali, specialmente negli Stati Uniti ma anche in Europa, hanno visto l’apertura di un centro di distribuzione Amazon come un’importante opportunità economica.
La prospettiva che una parte significativa di quei posti di lavoro possa essere automatizzata nel prossimo futuro crea incertezza e preoccupazione per l’economia di intere regioni. Questo ha attirato l’attenzione della politica: negli Stati Uniti, figure come i senatori Bernie Sanders ed Elizabeth Warren hanno chiesto una maggiore vigilanza sugli effetti dell’automazione e proposto misure di sostegno per i lavoratori che potrebbero essere sostituiti.
Anche l’amministrazione Biden ha toccato il tema nel suo ordine esecutivo sull’intelligenza artificiale, includendo disposizioni che riguardano l’impatto dell’automazione sul posto di lavoro, sebbene manchino ancora meccanismi di applicazione specifici.
La traiettoria di Amazon, che spesso fa da apripista per l’intero settore, sta di fatto costringendo i governi a confrontarsi con una domanda fondamentale: come si gestisce una transizione tecnologica di questa portata garantendo che i benefici della produttività non vadano a vantaggio esclusivo delle aziende e dei loro azionisti?
Che il numero di mezzo milione di posti di lavoro sia accurato o meno, la direzione intrapresa da Amazon e da molte altre aziende del settore logistico è chiara. La vera discussione, forse, non dovrebbe concentrarsi tanto sul numero esatto di posti che verranno sostituiti, quanto sulle regole e sulle politiche necessarie per governare questo cambiamento.
Si tratta di decidere se l’innovazione tecnologica debba procedere senza vincoli o se debba essere accompagnata da investimenti significativi nella riqualificazione dei lavoratori, in nuove forme di welfare e in una riflessione più ampia sul futuro del lavoro stesso.
La vicenda di Amazon, in questo senso, non è che il capitolo più visibile di una storia che riguarda tutti.



